Piras: “Da riscrivere la storia del jazz”

Se la popolarità avesse sempre lo stesso peso della competenza vivremmo in un altro mondo, forse migliore. Purtroppo, invece, spesso la popolarità è inversamente proporzionale alla competenza. Almeno in Italia. E non sarà un caso che uno fra i più apprezzati musicologi italiani al mondo si è dovuto rifugiare in Messico per scappare da quella che lui chiama la “peggiocrazia italiana”.
Marcello Piras, classe 1957, si occupa di musica jazz da quando aveva 16 anni. Fino ad oggi ha pubblicato decine e decine di saggi nelle più prestigiose riviste musicologiche al mondo, ha insegnato per molto tempo a Siena Jazz e nelle più qualificate università. Ha dato vita alla Sisma, la Società di studi musicologici afroamericani. Ma alla fine degli anni ’90 ha deciso di trasferirsi negli Usa. Ci racconta questa decisione al tavolino di un bar, in piazza Sedile, al termine di una apprezzata masterclass organizzata dal Conservatorio Duni che, grazie alla sensibilità del direttore, Saverio Vizziello, e alla presenza di un qualificato jazzista come docente, Oscar Del Barba, sta potenziando l’attenzione verso questo genere musicale.
“Un economista l’ha chiamata peggiocrazia, io la chiamerei sbagliocrazia. Attenzione, è un virus che entrato non solo nel Dna delle istituzioni, ma anche dei cittadini. D’altronde le istituzioni sono lo specchio della nostra società dove se uno fa qualcosa di buono viene subito emarginato. È un paese dove manca il riconoscimento del merito. Se sbagli vai avanti, e se combini qualcosa di buono e di innovativo la società ti mette in un angolo con un sentimento di invidia che rasenta l’odio. Ė un paese che non amo più″.
E così Piras, alla fine degli anni ’90 chiama un suo amico, nientepocodimeno che Bill Russo che, senza esitazione, lo invita a insegnare all’Università di Chicago. Qui si ferma per 18 mesi. Poi è un suo amico che lo chiama, si tratta di un “certo” Gunter Schuller che lo invita a insegnare all’Università del Michigan. Poi il terrorismo e l’attacco alle torri gemelle lo convincono a trasferirsi in Messico dove attualmente vive.
“È un posto straordinario diverso da come viene rappresentato sui media”, dice Piras. Poi la conversazione si sposta sulla musica jazz. “Il suo stato di salute non mi convince. La fase creativa del jazz, quella che guardava al futuro si è fermata nel 1979. L’ultima generazione di creativi è quella nata negli anni ’50. A partire da Butch Morris. Nessun altro ha saputo esplorare il suo strumento come Roscoe Mitchell”. E in Italia? “Il linguaggio non si è evoluto e si assiste troppo frequentemente a modelli scolastici. E questo riguarda anche le superstar”. A questo ha contribuito anche l’innovazione tecnologica, l’arrivo della rete? “Sono convinto che la scomparsa del disco tradizionale ha influito sui linguaggi del jazz. Ascention di Coltrane esiste solo come disco. La stagione del linguaggio del solista improvvisatore virtuoso è finita”.
Secondo i tuoi studi approfonditi la musica jazz non nasce come musica improvvisata e non nasce nel secolo scorso. Una tesi che capovolge i paradigmi fondamentali del jazz. “Questa musica è un albero che ha radici molto, molto profonde. Se la guardiamo dal punto di vista spagnolo, i primi segnali di jazz risalgono al 1500, se la guardiamo nel continente americano allora nasce nel 1600. Nel secolo scorso sono stati gli americani a vendere il jazz come musica improvvisata. Hanno venduto la loro cultura insieme alle istruzioni per l’uso”.
Insomma, la storia del jazz è tutta da riscrivere. “Assolutamente si. Ed è uno dei miei prossimi impegni. Ho ancora molti dubbi, ma penso che è arrivato il momento di scrivere finalmente una storia afrocentrica della musica”.
Nel frattempo alcuni sui saggi stanno per uscire in Italia per la Edt, negli Usa e in Inghilterra. Inoltre ha già pronto un saggio su Jelly Roll Morton e sta per fondare una rivista musicologica in spagnolo. Inoltre per tre mesi all’anno insegna al conservatorio dell’Aquila per poi tornare in Messico.
Dopo circa quindici anni sei tornato a Matera, come l’hai trovata? Molto, molto più bella e pulita. Con la sua storia può senz’altro diventare capitale europea della Cultura. Anzi, fosse in un altro Paese forse lo sarebbe già diventata. Ci tornerò il prossimo anno per un’altra masterclass al Conservatorio”.
Serafino Paternoster

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