Esclusiva, intervista a Wendy Oxenhorn, dg Jazz Foundation of America

Cecil Payne, nel 2007, sarebbe morto nella solitudine più triste se non ci fossero stati loro. Freddie Hubbard, scomparso nel 2008, si sarebbe trovato sommerso dai debiti senza il loro aiuto. E Johnnie Mae Dunson sarebbe rimasta in mezzo a una strada con i suoi figli se non li avesse incontrati. Sono solo alcune delle celebrità del jazz e del blues a cui il destino aveva tolto il piacere della vita e che poi sono tornati a sorridere.

Sono gli angeli del jazz. Ma al posto delle ali hanno la passione per questa musica. Hanno salvato dal disagio musicisti che avevano scritto la storia della musica neroamericana e che oggi possono continuare a raccontarla. Musicisti che erano usciti dai grandi palcoscenici in punta di piedi ripiegandosi con orgoglio nei loro angusti appartamenti o nella loro malattia o nell’età avanzata.

Questi angeli, circa venti anni fa, si chiamavano Herb Storfer, il pianista Billy Taylor, divenuto negli anni il vero ambasciatore del jazz nel mondo, la cantante Ann Ruckert, Cy Blank, James Briggs Murray and Phoebe Jacobs, cantante di Melbourne e già vicepresidente della fondazione intitolata a Louis Armostrong.

Insieme, nel 1989, decisero di dar vita a un’organizzazione per promuovere il jazz ed i suoi protagonisti. Poi arrivarono Jamil Nassar, il trombettista Jimmy Owens, Vishnu Wood, e per una serie di circostanze, questa associazione è diventata una vera e propria fondazione, vero e proprio punto di riferimento per tutti i musicisti jazz degli Stati Uniti d’America. Soprattutto dopo l’uragano Katrina che nel 2005 mise in ginocchio un intero Stato, un’intera città e soprattutto tanti, tantissimi musicisti di jazz.

Oggi, uno di quegli angeli della Jfa (Jazz Foundation of America) ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. Si chiama Wendy Atlas Oxenhorn ed è il direttore generale della Fondazione. Le sono accanto musicisti del calibro di Quincy Jones, Elvis Costello, Nat Hentoff, Wynton Marsalis, Ron Carter, solo per citare i suoi collaboratori e testimonial più famosi.

L’ho incontrata un paio di anni* fa fra i Sassi di Matera in veste di turista. Ed ha volentieri accolto la richiesta di un’intervista per la prima volta rilasciata a un blog italiano.

“Inizialmente – ci dice – la fondazione era nata per mantenere il jazz vivo e per promuovere questo genere musicale. Poi è nata la consapevolezza di proteggere i musicisti colpiti da crisi economiche o da malattie. Soprattutto in considerazione dei costi altissimi che in America hanno le cure in ospedale”.

Come avete iniziato questa avventura?

Da 14 anni abbiamo trovato la straordinaria collaborazione dell’Englewood Hospital and Medical Center che gratuitamente ha assistito circa mille musicisti di jazz e di blues senza assicurazione, compresi gli interventi in sala operatoria, i ricoveri e le visite specialistiche. Molti musicisti, anche famosi, hanno problemi di salute. Oggi è molto difficile suonare in America, soprattutto nei club. E quindi sono tanti coloro che non hanno disponibilità economiche tali da potersi assicurare un’assistenza medica adeguata”.

Puoi raccontarci qualche episodio?

Certo, ma ovviamente solo di alcuni musicisti che ci hanno autorizzato a farlo. Ad esempio, simbolica è la storia di Cecil Payne, il grande sax baritono della storia del jazz. Qualche anno fa Ron Carter, per certi versi allievo di Payne, mi segnalò la preoccupazione per il suo stato di salute. Era da tempo che non aveva più notizie su di lui. Ci mettemmo al lavoro e così lo chiamammo per offrirgli assistenza. Lui, che era diventato cieco, la rifiutò. “Cosa mangi? Chi fa la spesa per te?” gli chiesi. E lui mi raccontò che da circa un anno e mezzo si nutriva esclusivamente di SlimFast, due lattine al giorno. “C’è un programma che ti consente di avere aiuto e cibo ogni giorno”, gli dissi e lui riattaccò. Non mi arresi. Così lo richiamai dopo un paio d’ore dicendogli che ero molto preoccupata per lui e che non avrei dormito quella notte e le altre notti. Lui si mosse a compassione e accettò l’invito e così entrò nel programma di alimentazione. Tornò a mangiare regolarmente cibo e recuperò tutta l’energia possibile. Tornò anche a suonare alla grande. Poi, a dicembre dello scorso anno, è morto nella nella sua casa di Stratford, nel New Jersey, a 85 anni lasciando un grande vuoto intorno a noi ed a chiunque abbia mai ascoltato la sua musica.

Non meno significativa la storia di altri protagonisti della storia del jazz e del blues.

Freddie Hubbard ebbe un infarto e fu costretto ad un intervento chirurgico molto costoso. Aveva un mutuo da pagare e tutte le sue risorse economiche furono subito succhiate da banche ed ospedali. Anche in questa circostanza, con il suo consenso, siamo intervenuti. E ancora, solo per fare qualche altro esempio, Sweet Georgia Brown, finita senza casa in mezzo ad una strada e tornata a cantare, o Johnnie Mae Dunson,85 anni, cantante e autrice di circa 600 brani di blues per maestri come Muddy Waters e Jimmy Reed. L’abbiamo salvata da un avviso di sfratto per più di quattro anni. E poi c’è la storia di Jimmy Norman, l’autore di molte canzoni di Bob Marley per le quali non ha mai ricevuto i diritti d’autore. Lo andammo a trovare nella sua casa e la mettemmo in ordine. Trovammo così una cassetta audio inedita con lui e Bob Marley. Producemmo il cd che vinse l’Independent Music Awards for Blues of the year. E la sua vita tornò a camminare.

E’ un aiuto solo di tipo economico?

L’assistenza non è solo economica, ma anche psicologica, specialmente di fronte ai casi di malattia. Aiutiamo le persone alle quali, ad esempio, viene loro diagnosticato un cancro e devono cancellare un tour. Così noi li supportiamo nel pagamento dell’affitto di casa, in modo da non rimanere in mezzo ad una strada, senza tetto. Dopo l’uragano Katrina che ha devastato l’industria musicale del Jazz la fondazione ha aiutato moltissimi musicisti fornendo assistenza domiciliare e lavorativa. Hanno avuto sostegni economici per nuovi appartamenti, per prestiti e così via. Dopo Katrina ci sono più di 3000 musicisti che stanno attraversando un periodo durissimo.

I soldi da dove vengono?

E’ una delle mie attività principali. Innanzitutto organizziamo ogni anno grandi concerti di beneficenza all’Apollo theatre, a New York, per il quale servono otto mesi di lavoro accanto a grandi musicisti. Nell’edizione 2008 abbiamo raccolto 1.8 milioni di dollari. E poi ci sono le donazioni di privati. Infine, ogni settimana, al Local 802 Club Room, vicino ai nostri uffici, organizziamo jam session in cui si incontrano vecchi e nuovi protagonisti del jazz per raccogliere altre risorse economiche.

Come scegliete i musicisti da aiutare?

Prima dell’uragano che ha distrutto New Orleans sceglievamo i grandi musicisti del Jazz che hanno fatto di questa musica la propria vita. Sono stati i primi ad essere aiutati, soprattutto quelli con un’età avanzata e rimasti soli. I primi della lista erano quelli che avevano superato i 60 anni. E poi i più giovani con problemi di salute, con una famiglia a carico, sono aiutati dalla fondazione. Poi, dopo Katarina abbiamo cominciato ad aiutare di più i musicisti giovani di jazz e di blues. Abbiamo iniziato ad aiutare circa 700 musicisti recuperando 250.000 dollari di strumenti musicali donati gratuitamente ai musicisti dalle case di produzione, imprese manifatturiere.  Inoltre, 1000 musicisti sono stati piazzati a lavorare nei concerti e nelle scuole guadagnando 300 – 400 dollari a settimana, un buon inizio per riprendere a suonare.

E’ sempre facile suonare a New York?

Non è assolutamente una situazione facile se non sei una star della musica. Ma in tal caso suoni nei teatri, non nei club. Ci sono musicisti che vengono spesso in Europa ed è grazie a questa opportunità che possono sbarcare il lunario. Possiamo dire con assoluta certezza che in questo momento è l’Europa, con i suoi festival ed i suoi club che sta salvando il jazz statunitense. Ma, ovviamente, non a tutti viene offerta questa opportunità.

Come ti sei avvicinata a questa preziosa attività per la musica e per i musicisti di jazz e di blues?

C’è un pizzico di Italia nella mia storia. All’età di 17 anni sono arrivata a New York con la passione del ballo. Venni presa al New York Ballett, ma subito dopo ebbi problemi alle ginocchia e il dottore mi disse che dovevo smettere. Devastata psicologicamente chiamai la linea telefonica assistenza suicidi e la donna che mi risposte dall’altro capo del telefono cominciò a raccontarmi i suoi problemi, che aveva 50 anni e il marito l’aveva appena mollata. E così cominciai a consolarla. Ebbene, tre giorni dopo lavoravo in quel centro di assistenza. Cominciai così a entrare nel mondo della beneficenza: per i bambini senza tetto, per i vagabondi, e adesso lavoro per qualcosa a cui avevo sempre aspirato e che sapevo sarebbe prima o poi arrivato.

Un compositore italiano è stata la svolta. Lo incontrai a New York e mi regalò un’armonica, strumento che amavo quanto il ballo. Cominciai a suonare blues nelle stazioni metropolitane con un uomo più grande di me, aveva 70 anni. Cominciamo a produrre dischi e a guadagnare tanto quanto bastava per sostenere le nostre famiglie. Suonavamo nelle ore più affollate a facevamo un sacco di soldi. Ma l’uomo aveva una donna gelosa che ci ha fatto allontanare nonostante non avessimo alcuna relazione sentimentale. Lui scelse lei e abbandonò la musica e me. Così quando il compositore italiano ha visto il mio curriculum, ha visto il mio background, mi consigliò di rivolgermi alla fondazione. Vista la mia esperienza nel mondo della beneficenza e nel mondo della musica, mi presero subito. Se non fosse stato per il compositore italiano e per l’armonica, nulla sarebbe accaduto.

Come è cresciuta la Fondazione?

Quando ho preso il lavoro siamo partiti da zero. Prima assistevamo 35 persone, poi 70, poi 150 all’anno. Con il concerto all’Apollo riuscivamo a rastrellare denaro pubblico e privato, e poi persone capaci si sono aggiunte alla Fondazione nel board of directors. All’inizio avevamo solo 7.000 dollari. Oggi nella Fondazione lavorano 4 persone a tempo pieno e 3 a tempo parziale.

Se negli anni ’50 ci fosse stata la Fondazione Charlie Parker si sarebbe salvato?

Credo proprio di si. Io, almeno, avrei fatto di tutto per renderlo sobrio. Comunque, a parte gli scherzi, i problemi di allora erano diversi da quelli attuali. Ora non c’è il problema della droga o dell’alcol. La situazione è difficile perché i musicisti non vengono pagati abbastanza e perché non c’è la pensione Prima c’erano i grandi club dove suonavano, anche se segregati. Poi i club sono spariti e adesso il jazz live non è più come un tempo. Vanno tutti correndo con le cuffie dell’ipod sparate nelle orecchie, e i concerti dal vivo si seguono sempre meno. E’ l’Europa che può rappresentare la salvezza, da qui possono nascere nuove opportunità per i musicisti.

Prossime iniziative?

Abbiamo avviato un programma gratuito di screening oncologico all’Englewood Hospital consapevoli che solo attraverso una seria attività di prevenzione è possibile difendersi da questo male che solo quest’anno e in pochi mesi ha colpito altri due grandi musicisti della storia del jazz, il bassista Dennis Irwin, scomparso a marzo, e il pianista Ronnie Mathews, scomparso a giugno a causa di un cancro al pancreas. A partire dal mese di settembre è possibile per tutti i musicisti jazz e blues effettuare screening gratuiti dopo aver prenotato la visita attraverso i nostri uffici.

Serafino Paternoster

 *Questa intervista risale a due anni fa e l’avevo offerta a una rivista specializzata che nel frattempo aveva cambiato direttore e non l’ha più pubblicata.

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